“Il lavoro di Ugo Galassi è figlio di una fortissima progettualità. Le sue non sono foto casuali o trovate, sono frutto di una ricerca e di un’invenzione intenzionale e complessa. L’aspetto incredibile è che sono scattate al buio: le piante che ritrae vengono tolte dalla terra e appese a un treppiede, completamente al buio, in modo che la pianta possa essere indagata nella sua tridimensionalità. Le sue foto sono dei veri e propri ritratti: come in un ritratto, delle piante cerca di cogliere l’essenza, il carattere.
È una fotografia molto consapevole, che mi fa pensare a un’idea di slow photography. […] Il suo lavoro ha una qualità che definirei calligrafica: anche da un punto di vista tecnico e formale, si tratta proprio di una grafia, che ha fortemente a che fare con la grammatica delle immagini. Perché anche le immagini hanno una grammatica, così come probabilmente ce l’hanno le piante, che dialogano fra di loro, si muovono, reagiscono, come ci insegna Stefano Mancuso.
Penso che quella di Galassi possa definirsi una storia d’amore con le piante: nelle sue foto c’è un’estetica profonda, ma la profondità più interessante riguarda il rapporto tra chi guarda e l’oggetto. Una relazione che siamo abituati a vivere solo tra umani, mentre Ugo riesce a crearla con le piante. E la cosa più bella è che alla fine le piante vengono tutte le reinvasate e recuperate.”

Denis Curti – Walden Magazine #2

Bio

Sono un ricercatore. Indago la realtà che mi circonda, il modo in cui la percepiamo. Sono affascinato da quel tentativo continuo, da parte del nostro cervello, di costruire modelli per ricondurre ciò che osserviamo a esperienze conosciute. Perché la realtà è prima di tutto una questione di percezione.

Le mie fotografie hanno ricevuto menzioni e premi in importanti concorsi internazionali e sono state pubblicate su riviste e siti web quali Conde Nast Traveller China, Corriere della Sera, La Stampa, Repubblica, Rivista Ufficiale NBA, Digital Camera, Domus, AD Magazine (Russia), Platform – Architecture and Design, WU Magazine, China design trends (Catalogo 2017-2018), Designboom, Artribune, Collater.al, Journal Du Design, Icon Design, Rolling Stones – Black Camera, Geo (Rai3) .

Mostre:
– Milano Photo Festival 2019 – Galleria Spaziofarini6
– Wop Art 2019 Lugano – Galleria Spaziofarini6
– Colline Cultura Photo Festival 2020 – Il Fotografo / Associazione Arketipo
– Walden 2020 – Rilegno (curata da Denis Curti) 
– Photo Action Per Torino 2021 – GAM Torino (curata da Guido Harari e Paolo Ranzani)
– SiFest 2021 – Rilegno (curata da Alessandro Curti) 
– Letture Urbane 2022 – Auditorium di Santa Chiara (curata da Antonio Buonocore)

Premi:
– International Photographer of The Year 2016 (honorable mention)
– Fine Art Photography Awards 2017 (honorable mention)
– Moscow International Foto Awards 2017 (2nd Place, Editorial-sports)
– International Photography Awards 2017 (honorable mention)
– Sony World Photography Awards 2018 (honorable mention)
– Siena Photography Awards 2018 (3rd Place, Splash of Colors)

Nudi di pianta

Osservando le piante mi trovo spesso a riflettere sulla difficoltà con cui ci accorgiamo di loro, solitamente non ne abbiamo vera consapevolezza.  E’ un fenomeno ben conosciuto dai ricercatori: la plant blindness, ovvero l’incapacità di vedere o notare le piante nel proprio ambiente. Questa cecità, non a caso, si traduce in una loro sottovalutazione e in un interesse limitato per la loro conservazione. Nella società umana si tende a ritenere che gli animali siano fondamentalmente più interessanti e visibili delle piante.

“Se mostro a qualcuno prima una foto che ritrae delle persone o degli animali in mezzo alla foresta e poco dopo la stessa foto senza i soggetti animali e chiedo ‘cosa c’è qui?’ quasi tutti mi diranno ‘niente’. Eppure, senza le piante, gli animali non esisterebbero: la vita stessa sul pianeta forse non esisterebbe e, qualora esistesse, sarebbe qualcosa di terribilmente diverso.

Stefano Mancuso

Qual’è l’ultimo animale che hai visto? Riesci a ricordare il suo colore, dimensione e forma? Sapresti distinguerlo facilmente da altri animali, magari anche della stessa razza?
Sapresti dirmi lo stesso dell’ultima pianta che hai visto?

Se le tue immagini mentali degli animali sono più nitide di quelle delle piante, non sei solo. I bambini riconoscono gli animali come creature viventi ben prima di poter dire che anche le piante siano vive. Se proviamo a disegnare una pianta tendiamo a rappresentarla in maniera estremamente semplificata, molto più di quanto non faremmo con un animale.

Siamo naturalmente portati a empatizzare e a fare sforzi per conservare specie con caratteristiche simili a quelle umane. E’ una delle ragioni cognitive che ci portano a sottostimare l’importanza delle piante per la nostra sopravvivenza. O i rischi che esse corrono. Lo sapevi, ad esempio, che almeno un terzo delle specie di cactus è a rischio estinzione?

I miei ritratti di piante, o come li chiamo “nudi di pianta”, sono dei negativi realizzati attraverso l’inversione della luminosità. Non ci accorgiamo coscientemente del fatto che siano negativi proprio a causa della plant blindness.

Lavoro completamente al buio, illuminando le piante con una torcia, indagandole nella loro tridimensionalità. Prima di scattare una fotografia può passare molto tempo. L’indagine è un atto contemplativo e di ascolto. In un mondo che corre freneticamente la mia è slow photography. Un’osservazione consapevole, un dialogo con la pianta che voglio ritrarre. 

Playground(s)

Gummy Gue sono un duo di artisti visivi che lavorano principalmente nello spazio pubblico. La loro ricerca sviluppa un sistema di codici formali che seguono una determinata logica. Una grammatica personale che si esprime in una visione sospesa, per suggerire universi possibili attraverso una figurazione che confina con l’astratto.

Dal 2016 fotografo i loro “Playground” cercando di reinterpretarli attraverso la mia visione. Trattandosi di progetti di rigenerazione urbana ho scelto di dargli vita attraverso i gesti atletici di chi quelle opere le vive nella quotidianità mettendole in relazione alle intenzioni del progetto di espandersi in nuove possibili narrazioni visive.

Oramai sono molti i campi da basket realizzati come opere di street art, ma ai tempi del primo Playground, ad Alessandria, esistevano pochissime opere di quel genere. In rete trovai unicamente immagini che ritraevano campi da basket come quadri astratti, privi di vita.
Opere nate per ridare vita a quartieri disagiati, venivano fotografate dimenticandosi della loro raison d’être, ovvero le persone per cui quelle opere erano nate.

Non ho usato droni bensì un cestello a venti metri d’altezza. Sebbene le vertigini mi togliessero il fiato, non poteva esserci intermediazione. Avevo bisogno di freschezza, di un contatto diretto tra me e i giocatori. Da quelle fotografie è nata la prima serie “Playground”, ma soprattutto la mia amicizia e collaborazione con Gummy Gue.